Il portiere è un ruolo particolare. Durante i primi anni del football non era neanche contemplato. Agli albori si giocava il dribbling game, ovvero tutti rincorrevano il pallone, chi se lo accaparrava puntava dritto gli avversari cercando di saltarli per arrivare al tiro, mentre gli altri si raggruppavano nei paraggi per intervenire in caso di contrasti persi. Solo a partire dal 1871 il goalkeeper ottiene il suo status ufficiale e viene accettato universalmente, ma ancora non si distingue dai compagni, se non per l’uso delle mani.
Nel 1909 si decide che dovrà indossare una maglia diversa e riconoscibile, ma addirittura solo nel 1912 fu corretto il regolamento limitando l’uso degli arti superiori alla sola area di rigore. Infatti fino a quel momento il portiere poteva giocare la palla con le mani in tutta la propria metà campo, maestro e causa del cambiamento fu Leigh Richmond Roose, ottimo e spericolato portiere del Sunderland, unico a sfruttare a pieno il regolamento portando la palla fino al centro del campo per guadagnare metri e lanciare con più precisione i compagni direttamente verso la porta avversaria.
Prima del 1909 il portiere veste esattamente la stessa divisa dei compagni, come nella prima foto che immortala la finale di Coppa di Scozia del 1896, vi sfido a distinguerlo dal resto della squadra. Più facile invece nella seconda dove William Foulke – gigante di 193 cm per 150 kg che ha difeso per 299 volte a cavallo del 1900 la porta dello Sheffield United – è riconoscibile ma solo grazie alla sua enorme stazza.
Riconoscibile a colpo d’occhio
Prima o poi la regola doveva cambiare e, finalmente, alla fine del primo decennio del ‘900 si decide che l’estremo difensore sia vestito diversamente dai compagni, in modo da individuarlo immediatamente visto i privilegi che gli sono concessi.
Ai giorni nostri vanno di moda divise anche troppo appariscenti, sempre più spesso monocolore e fluorescenti, una moda che da ex portiere non capisco e non apprezzo. Una teoria la espone Stefano Sorrentino nella sua autobiografia Gli occhi della tigre, sostenendo che con le velocità del gioco odierno l’attaccante è attirato dai colori vivaci e inconsciamente predisposto a mirare verso quella direzione. Mi sembra un po’ forzato ma lui ha giocato in Serie A e io no…
Ma non siamo arrivati subito a questi colori. Ci sono stati periodi dove i portieri si vestivano in modo più appropriato o in modo talmente eccessivo da risultare almeno interessante. Ogni nazione si è portata dietro le proprie tradizioni, almeno fino agli ultimi anni dove la globalizzazione e gli input stringenti di FIFA e UEFA hanno appiattito un po’ tutto.
Eleganza italiana
Iniziamo dall’Italia: tradizionalmente da noi la maggior parte dei portieri si è sempre vestita di nero o di grigio, tenute semplici e austere che però davano la certezza quasi matematica di non potersi confondere con la propria squadra o con quella avversaria. Se escludiamo il periodo fascista le squadre con quei colori erano veramente poche, mi vengono in mente Casale, Alessandria e poco più. Partendo da Combi, passando da Sarti, Albertosi, Zoff e arrivando a Tancredi, Zenga o Tacconi, i colori predominanti rimangono quelli. I pantaloncini invece sono sempre stati neri, cosi come i calzettoni – questi ultimi con una percentuale leggermente più bassa – segno distintivo di più generazioni di portieri italiani. Quanto rimpiango lo spezzato!
Ovviamente c’erano anche delle eccezioni, il Milan per esempio predilige la maglia gialla, mentre la Fiorentina dagli anni ’80, abbandonato il classico grigio o verde, ha spesso utilizzato il rosso del giglio.
Per la nazionale invece si è sempre adottato il grigio con rifiniture azzurre, richiamate dai calzettoni e pantalone nero. Tradizione quasi centenaria interrotta sciaguratamente da Puma con gli improponibili completi rossi, gialli o neri. In nome di cosa poi?!
Tradizionalismo inglese
Passiamo a gli inventori del calcio, la tradizionalista Inghilterra: qua, fino a metà anni ’90 circa, il portiere, rispetto ai suoi compagni di squadra, ha sempre e solo cambiato la maglia, lasciando invariati i calzoncini e i calzettoni. All’inizio, per noi italiani, l’effetto è straniante perché i colori possono non essere ben abbinati, ma soprattutto i diffusi pantaloncini bianchi sono l’opposto dei nostri neri, il che crea uno grosso shock visivo-culturale. Ma rivisti adesso, col senno di poi e con la giusta consapevolezza, hanno un fascino unico che solo il calcio d’oltre manica può regalare.
Da queste parti si predilige il verde, non chiedetemi perché ma le due Manchester, Liverpool e Nottingham Forrest fanno scuola.
A livello di nazionale il colore di base è il giallo, che da Banks a Pickford ha segnato la storia dei 3 leoni. Quando giocava l’autore della parata del secolo – che è stata fatta in maglia blu, ma solo perché di giallo vestiva già il Brasile – il concetto maglia-pantaloncino adottato in campionato era riproposto anche in nazionale. Mentre durante la rivoluzione Umbro anni ’90 il completo era coordinato e molto fantasioso, pur mantenendo la sua base gialla come da tradizione.
Dimenticavo la parata del secolo! Pelé, Tostao e tutti i presenti ancora si stropicciano gli occhi…
Fantasia sudamericana
Chiudiamo col Sud America: qui il calcio ha una valenza e uno stile diverso dall’Europa. È esaltato il gesto tecnico, la giocata del singolo e i portieri spesso e volentieri hanno una tecnica di base riguardo al gioco con i piedi paragonabile a quella dei compagni. Nell’attualità vediamo Ederson del City calciare palloni a 80 metri che neanche Pirlo, mentre in passato eroi del calibro di Higuita, Chilavert, Rogerio Ceni o Jorge Campos rivoluzionavano il ruolo impostando da dietro, battendo calci di punizione e rigori o, nell’ultimo caso, sostituendo i compagni in attacco cambiandosi addirittura di maglia (ma su questo, più avanti, dedicherò un articolo a parte).
Tutto questo, ovviamente si riflette anche nel vestire. Campos ne è l’esempio lampante che, oltre a essere uno dei più grandi calciatori del Messico, si è reinventato stilista per le proprie divise che sono diventate iconiche e riconoscibili a prima vista anche da chi il calcio lo segue meno. La taglia oversize vestita richiamava i poncho tipici del suo paese e i colori accesi citavano, soprattutto grazie alle proprie trame, un mix fra le tradizioni Inca e i costumi dei surfisti del quale faceva parte essendo il suo “secondo” sport.
La personalizzazione delle maglie ovviamente non si ferma in Messico, ma arriva in Argentina, in Brasile, in Paraguay… ogni portiere con una motivazione diversa ma sempre apprezzabile.
Chilavert, portiere goleador con 72 reti all’attivo in carriera fra calci di punizione e rigori, sfoggiava fiero sul petto un bulldog, in onore al suo soprannome che rendeva merito al suo carattere forte e carismatico oltre alla sua stazza fisica massiccia e compatta.
“El Mono” Montoya, portiere del Boca Juniors negli anni ’90, invece sfoggiava una maglia quanto meno pittoresca con la sua caricatura che guida un camion. In due versioni, bianca e gialla. Nessun riferimento a niente di particolare, pare, ma solo una goliardata per essere originale.
In Brasile invece Rogerio Ceni è un’istituzione, soprattutto a San Paolo dove ha passato praticamente per intero la sua lunghissima carriera – è al secondo posto nella speciale classifica dei calciatori con almeno 1000 presenze con 1227, dietro solo a Peter Shilton con 1390 – e dove detiene il record del portiere professionista con più reti segnate, ben 129!
La sua particolarità infatti è quella di essere equiparato a un giocatore di movimento, sia nel vestire che nella numerazione, un po’ come il primo Campos. Infatti di norma vestiva la seconda o la terza maglia del São Paulo, se non direttamente la prima quando la squadra sfoggiava le away. Sulla schiena mostrava un bellissimo 01, ovvero un 10 inverso, in onore della sua grande tecnica che gli permetteva di segnare punizioni e rigori con sconcertante continuità.
Il più grande di tutti
Non mi potevo certo dimenticare del miglior portiere che il dio del calcio abbia mai proposto, unico estremo difensore a vincere il Pallone d’Oro, soprattutto quando il Pallone d’Oro valeva qualcosa. Lev Jašin (Yashin).
Il “Ragno Nero”, era soprannominato così perché con le sue lunghe leve riusciva ad arrivare ovunque, togliendo dalla porta qualsiasi pallone passasse in zona. Probabilmente qualche ragnatela nella maglie della rete sarà pure stata tessuta, perché di gol ne prendeva veramente pochi. Leggendario il suo completo completamente nero, sia quando vestiva la maglia della Dinamo Moskva che quando quella dell’Unione Sovietica. D vs CCCP le uniche differenze.
Se non sei tormentato dopo aver fatto un errore, non sei un grande portiere. In quel momento, non importa quello che hai fatto in passato, perché sembra non avere futuro.
– Lev Yashin